ANCONA – Ormai è arrivato più o meno all’orecchio di tutti che c’è un Paese nel mondo, la Siria, che sta vivendo una situazione drammatica. Qualcuno l’avrà sentito ai notiziari, qualcun altro avrà letto sul giornale o su internet: si parla di morti, di bambini torturati, di case distrutte, di città sotto assedio. La classica frase che si dice in queste circostanze, se qualcuno ti chiede un’opinione o una riflessione è: “Ho sentito qualcosa, ma non è che ci ho capito tanto”.
Ci sta, in fondo, nessuno di noi è onnisciente e di politica estera i telegiornali italiani, a parte le emittenti all news, parlano raramente.
L’opinione pubblica è poco incline ad addentrarsi in tematiche impegnative, tanto più se non si tratta di questioni che hanno conseguenze dirette sulla vita quotidiana; figuriamoci se in tempi di crisi qualcuno può interessarsi a ciò che accade altrove!
C’è, poi, un problema di fondo, che ai non addetti ai lavori, forse, può sfuggire: le fonti da cui si attingono le informazioni e la possibilità di verificare le stesse. Senza addentrarci in una riflessione troppo settoriale, va però detto che, se vogliamo avere un approccio quantomeno critico e costruttivo rispetto ad una qualunque questione, in questo caso la tragedia siriana, dovremmo capire chi ci sta comunicando cosa.
In altri termini: se mi metto ad ascoltare le notizie dalla Tv satellitare siriana, o se leggo online i quotidiani di Damasco, chi è che mi sta informando? Si tratta certamente di giornalisti, addetti stampa, reporter, corrispondenti… ma, c’è un ma!
Per lavorare in una Paese come la Siria, specie in un settore sensibile e strategico come quello dell’informazione, bisogna avere tutte le carte in regola e in questo caso non mi riferisco ai soli esami di abilitazione o ai tesserini vari: bisogna essere iscritti al partito Bat’th, il partito che sostiene da più di quarant’anni la dinastia degli Assad, prima il padre e poi il figlio, che ha letteralmente preso il potere in eredità.
Per chiarire questo concetto e dare la possibilità a chi legge di farsi un’idea del contesto di riferimento, basta suggerire di prendere in mano un libro di storia e leggere ciò che accadeva all’epoca, ad esempio, del nazi-fascismo: è la storia che, in luoghi e con protagonisti diversi, si ripete. Il regime detta la linea, filtra le informazioni, stabilisce ciò che si può dire e come e, soprattutto, chi ha diritto di parola e chi no.
La cosa più leggera a cui va incontro chi si oppone a questo dictat è la censura, per non parlare di conseguenze ben peggiori, che vanno dall’arresto (sia chiaro, per reati d’opinione ed espressione), alle minacce e intimidazioni e, nei casi peggiori, all’uccisione. Dunque, se prendiamo di riferimento la stampa ufficiale siriana, Tv, radio, emittenti satellitari, giornali e l’agenzia di stampa nazionale, Sana, sappiamo che queste voci sono il megafono e i ripetitori del regime.
Chiarito questo punto (per niente scontato), la domanda sorge spontanea: se vogliamo sentire “un’altra voce”, a chi dobbiamo rivolgerci? In Siria non esistono i giornali e i giornalisti dell’opposizione, così come non esistono i politici e i partiti di opposizione, così come non esisteva, se non in forma clandestina, una reale opposizione al regime di Assad, almeno fino al 15 marzo 2011.
Cosa indica questa data? Per molti siriani è l’inizio dell’anno zero, della rinascita del popolo e della nazione, dell’uscita dalle tenebre della dittatura verso il sofferto e ancora lontano orizzonte della libertà e della democrazia.
Il 15 marzo 2011 è il giorno in cui un gruppo di bambini di classe quarta di una scuola di Dar’à, nel Sud della Siria, emulando i giovani tunisini ed egiziani che in quegli stessi giorni scendevano nelle piazze per chiedere libertà e democrazia, ha scritto sul muro della propria scuola: “Il popolo vuole la caduta del regime”.
Il resto è storia, una storia che, chiaramente, le emittenti del regime non hanno mai raccontato: i bambini sono stati arrestati e torturati e le loro famiglie, per protesta, sono scese in strada a manifestare, contravvenendo al regime di coprifuoco (divieto di manifestare, divieto di assembramenti, cortei e riunioni pubbliche) che in Siria vige da oltre 40 anni. Da quel giorno, sono passati 15 mesi, ogni giorno in Siria ci sono manifestazioni anti regime e, per tutta risposta, quest’ultimo risponde proseguendo un’offensiva militare senza precedenti nella storia, che ha già causato almeno 16 mila morti, tra cui 1500 bambini.
Quali sono, dunque, le alternative? Ai giornalisti stranieri è stato proibito l’ingresso in Siria e quelli che operavano lì prima dell’inizio della repressione sono stati mandati via. Se il mondo è riuscito a vedere le immagini della distruzione che ha colpito molte città siriane, prima tra tutte Homs, se ha potuto conoscere le storie di violenza, abuso, violazione dei diritti umani che ogni giorno colpiscono i civili siriani non si deve di certo ai giornalisti embedded, che si trovano pur sempre “nelle mani” del regime, ma grazie ai giornalisti, siriani e stranieri, che si muovono clandestinamente nel Paese e grazie all’attività di centinaia di giovani, non professionisti e autodidatti, che si sono armati di foto e videocamere e, a tutte le ore del giorno e della notte, fanno scatti e riprese e li condividono con la rete.
Finalmente l’alternativa c’è, finalmente il popolo ha una voce, finalmente il mondo può vedere cosa significa vivere sotto un regime spietato. Il materiale giunge, per la maggior parte, in arabo, ma poi, grazie a quelli che la sociologia moderna chiama “meccanismi di solidarietà in rete”, viene tradotto in tutte le lingue del mondo e condiviso.
Rispetto a trent’anni fa, quando avvenne, praticamente nel silenzio della comunità internazionale, il massacro di Hama (almeno 40 mila morti ritrovati in fosse comuni), oggi il mondo può vedere, si può documentare, può fare ricerca… se vuole. L’autenticità delle fonti è garantita dalla solidità dei contatti che, proprio grazie alla rete, si è formata tra i giovani siriani e i giornalisti all’estero, con i giovani reporter e attivisti all’interno della Siria: i video riportano la data e il luogo e le foto riportano i loghi dei gruppi che le hanno scattate. Per non parlare, poi, delle riprese satellitari, che mostrano in modo inequivocabile la presenza dei carro armati nei centri abitati, anche se il regime più volte ha negato.
E’ capitato che siano girati video e immagini attribuiti alla Siria, che però sono risultati vecchi, riferiti prevalentemente all’Iraq e proprio per questo, per evitare simili errori che inficerebbero la bontà e l’autenticità del lavoro svolto, gli attivisti siriani hanno preso l’abitudine di inserire date e riferimenti spazio-temporali su tutto il materiale che condividono.
Siamo di fronte ad un fenomeno mediatico senza precedenti, che sta diventando oggetto di studio da parte di molti esperti di comunicazione a livello internazionale. Chi non si rende conto delle proporzioni di questa attività difficilmente può capire cosa accade in Siria e quale sia lo spirito di solidarietà e condivisione che unisce i siriani della diaspora a quelli dell’interno, ma anche tutti coloro che, pur non essendo siriani, si stanno interessando alla causa e si stanno informando. In-formarsi, cioè andare a costruirsi una coscienza critica, documentandosi, per cercare di capire cosa accade.
Oggi, purtroppo, sono in molti che preferiscono non impegnarsi in questo tipo di ricerca e, pensando di essere ancora all’epoca della guerra fredda, riducono, nelle loro analisi superficiali, la questione siriana ad una sorta di braccio di ferro tra Ovest ed Est del mondo. Parlano di “complotto internazionale”, arrivano persino a difendere Assad come ultimo testimone dell’antimperialismo e sembrano ignorare totalmente i 16 mila morti caduti dall’inizio della repressione chiedendo libertà.
La questione siriana è la questione di un popolo in marcia verso la libertà. Un popolo che vuole autodeterminarsi, rovesciare un regime, scegliere chi lo rappresenterà in futuro. L’attività incessante della rete lo conferma continuamente: non è un caso che non passa giorno senza che vengano uccisi fotografi o reporter mentre sono all’opera. Essere “testimone oculare” in Siria oggi significa possedere un’arma che il regime non tollera, perché il regime non vuole intralci, vuole continuare a massacrare indisturbato.
Asmae Dachan, giornalista siriana iscritta all’Odg Marche: “Nel mio Paese non esistono giornali, né giornalisti d’opposizione”
Siria: “Il regime non tollera i testimoni oculari”
Asmae Dachan – giornalista di origini siriane iscritta all’Ordine delle Marche